Leggo volentieri le pagine dello scrittore-giornalista Nico Orengo quando descrive i suoi luoghi: mi assorbe interamente; lontana dalla realtà, mi sorprendo a sorridere divertita, partecipe…
Ho vissuto sensazioni simili quando, giovanissima, come incantata, ascoltavo le parole di un amico più grande senza perdere neppure un accenno, un’inflessione di voce, un sottinteso; sarei stata in grado di ricostruire con esattezza il luogo preciso dove erano state pronunciate, come in un incantesimo…
Per me era un esercizio avvincente, momenti preziosi; prendendo minima parte alla conversazione, potevo sembrare indifferente, lontana, invece era tutt’altro: interessatissima e protesa a ritenere, rammentare, archiviare; volevo che niente andasse perduto di quello che per me era un nettare dolcissimo; introvabile altrove, svolgevo un lavorio mentale intenso, costantemente sul filo dell’emozione.
Non so fin a che punto il tanto ammirato narratore abbia compreso quanto mi piacesse il suo linguaggio rapido, insolito, mai banale, talvolta scanzonato; sempre evocatore di immagini suggestive e…. leggendo Orengo, in certi punti, ritrovo simili stati d’animo.
Sento profondamente i suoi slanci per i ricordi d’infanzia; rimpiango di aver conosciuto in ritardo “i suoi luoghi”, graditi fin dal primo sguardo enormemente, senza sapere che gli appartenessero.
Mi piace quando parla delle terre blu, dell’olio di mare, della pausa dell’onda, del mare delle tortore, del chinotto e della gazzosa, della spiaggetta di Mamante, delle mire prese dalla barca di notte, ancora più difficili perché volubili al riflesso del taglio della luna, e… quando nomina la Corsica, ravvisata per amore e nostalgia, ancora più vicina, nelle mattine di ametista.
Libertà e stimoli senza limiti deve aver ricevuto dalle ore vissute intensamente, gioia dal sentirsi protagonista in uno scenario di vita semplice e bellissima, appagamento dall’essere tenuto in considerazione da animi schietti e buoni… per non parlare dell’entusiasmo debordante per “l’adulto del cuore” che l’aveva conquistato con le sue sapienze antiche, avrebbe potuto chiamarsi Virgilio e non Dante per quanto gli fu maestro in tutto: “grande cacciatore” di tordi e pernici su percorsi a sorpresa, “grande osservatore”, che intuiva le nuvole e sapeva leggere le creste dell’onde, “grande conoscitore” dei tempi della natura e dei punti misteriosi nei mari dove nascono le correnti e nelle selve dove crescono piante appartate e di fiaba come i muschi di velluto e il vischio, talmente bello da farsi perdonare di essere un parassita.
E la complicità? Viverla, per un adolescente è esaltante! Le sere d’estate, meravigliosamente lunghe, quando il giardino di casa sembrava non potesse accogliere nuove iniziative, c’era sempre la battigia con l’ampio respiro del mare senza onde e gli scoglietti affioranti: è lì che prendevano forma le idee, anche le più ingombranti, per i giorni da inventare.
Quando mi inerpico per la stradina ripida davanti al cancello dei Giardini Hanbury, raggiunte le ultime case in alto, comincio anch’io a sentire, amplificati dalla tenerezza del pensiero, i suoni prodotti dalle risonanze imprevedibili dei martelletti e dei chiodini orchestrati dal “grande calzolaio” e non mi stanco mai di ricreare la scena dell’artigiano che si muoveva con destrezza tra suole e tomaie, ignaro di suscitare tanta ammirazione e di scavare solchi profondi in un animo giovane, come è poi avvenuto. Percorrendo la – Via del Marinaio – mi tengo di lato, come dovessi non ostacolare la discesa dei passi svelti del “grande pescatore” che con la lunga canna, dopo un giorno di lavoro, al tramonto, andava a tentare i pagelli dell’ultima ora.
Non sapevo che tanta vita operosa fosse appartenuta a luoghi adesso solitari e vissuti in modo completamente diverso.
Grazie, scrittore di Latte e di La Mortola, ammiratore delle bellezze naturali di baie incantate dal sole e dalla brezza, per aver animato il palcoscenico degli scenari descritti con racconti di vite che altrimenti si sarebbero dissolte.
In tale splendore d’immagini, di ricordi, di nostalgia, devo tuttavia dire che c’è stato qualcosa che mi ha tristemente turbata: nella lettura sono arrivata impreparata dinnanzi alla descrizione dell’intingolo alla ligure dagli innumerevoli profumi, predisposto, fortunatamente non da lui, per ospitare e insaporire le “sue tortorine”, le sue compagne di voli, perché di voli, tutto considerato, ne ha fatti tanti anche lui: quando planava nel banco di scuola direttamente dalla finestra, unico varco usato anche in casa; per non parlare degli andirivieni dai Giardini Hanbury, a quei tempi oltraggiati dalla guerra, il su e giù dalla collina tra i fruscii e i profumi delle coltivazioni sollecitati dalla elasticità delle lunghe gambe di un longilineo in crescita.
Come è potuto accadere questo qualcosa di impensabile?… a lui che nelle notti di luna piena non accostava la finestra per non escludere il grande astro e per goderne la presenza anche da addormentato in tutto il suo chiarore…
La spiegazione di quella decisione troppo rapida, crudele più del necessario, presa senza indecisione… deve pur trovarsi in qualche ansa dei labirinti della mente o del cuore o in tutti e due…
Mi addentro cautamente: talvolta il dolore è talmente disorientante da non essere accettato e da far subentrare una forza di troppo che ha l’intento di esorcizzarlo. Per lui potrebbe essere andata così: per non soffrire si è imposto di essere forte come se si trattasse di una prova di iniziazione, come voler superare il valico tra infanzia e adolescenza. Momenti severi, di confusione… emozioni più grandi di lui. Deve avere avvertito l’avvicinarsi della fine della stagione dorata, il prossimo distacco dal luogo della felicità e dall’età lieta che inevitabilmente gli sfuggiva; così, nella disperazione di aver perso tutto, ha incluso anche le tortorine, irrimediabilmente.
Lasciava il cuore alle stagioni di vita all’aperto, libero come il vento, senza controlli, in sintonia tra bellezza e sentimento… Chissà cosa avrebbe dato in assoluto per poter restare!
In una coltre di ostacoli, ha visto l’irrisolubile: la difficoltà di portarle a Roma con sè, l’imminente apertura della caccia e l’impossibilità di proteggerle; non ha neppure considerato l’eventualità fortunata che potessero salvarsi; ecco cosa è stato: è mancata la speranza…
Così, mentre le idee si affollavano, nella ricerca di una soluzione, accettate e scartate velocissimamente da despoti sconosciuti e incontrollabili del subconscio che affiorano esclusivamente nei momenti importanti per nuocere, dei quali si resta in balìa: ha preso la decisione sbagliata, di troppo coraggio, di eccessiva risolutezza.
Davanti non aveva soltanto lo splendido segno del blu intenso dei pastelli CARAN d’ACHE a separare gli azzurri del cielo da quelli del mare, le bellezze del quotidiano, ma una partenza, il distacco da atmosfere stimolanti, un futuro di ore di studio al chiuso, lontano dalla brezza, dal profumo e dalla vista del mare, cosi profondamente amato che il suo richiamo è sempre stato “canto di sirene”, come scrisse da adulto.
La frase, detta a fin di bene, dal suo “maestro di vita” che gli fece intendere le tortore come frutti prodotti dalla natura e da cogliere, prima o poi, come gli altri… forse lo ha tratto in inganno.
E pensare che era stato cosi ostinato nel volerle… già quando nel nido erano due piccole uova bianchissime, vi girava intorno con insistenza… Il fatto che fossero restie nei voli era da attribuire alle cure parentali incomplete: erano mancate quelle dell’imitazione al volo, importantissime, non ricevute perché prelevate dal nido troppo precocemente, poco più che implumi, vulnerabili, con l’intento di poterle addomesticare.
Ecco perché più che volare passeggiavano: brevi voli sul campanile, raramente superavano la via Aurelia, non arrivavano al mare perché territorio esclusivo dei gabbiani aggressivi e rientravano al tramonto; erano principalmente da compagnia e decorazione in un paesaggio già ornato di per sé. Avevano covato a loro volta e si erano riprodotte; le nuove generazioni osavano la novità: vivevano la vita selvatica nidificando sui pini, oltrepassavano il vecchio confine, volavano lontano nei cieli di Francia. Il motivo: avevano ricevuto l’imprinting umano! La domesticazione, a pensarci bene, è atto di egoismo; per questo così appagante, esperienza unica, coinvolgente: l’attesa della crescita delle ali, le timide uscite stimolate dai grani di granturco, i goffi tentativi di volo, l’apprensione nella riuscita dell’impresa, l’incertezza fino all’ultimo -vanno o restano? Fino a che scelsero di restare nella cassetta fabbricata dal “grande ideatore” e precariamente appoggiata sulla finestra dove tutte le sere, al ritorno dalle sue giornate movimentate, le ritrovava con la testina ripiegata sotto l’ala.
Ha sempre saputo distinguere la quieta assiduità delle tortorine, la grazia e l’affettuosità degli uccellini della voliera, dall’andirivieni interessato dei colombi opportunisti, senza un accenno di affezione. Ecco perché la prima coppia di tortore continuava a essere la sua preferita, espressamente per quella loro confidenza timida, esitante, per quell’affidamento senza riserve, commovente… erano lì per lui, per un suo capriccio infantile… finché un giorno, per un errore d’affezione, si è rotto il magnifico equilibrio troppo perfetto per poter durare.
Alla fine della vicenda, si è verificato quanto indica Kahlil Gibran, poeta e filosofo libanese del 1883 nelle contemplazioni sugli uomini e sulla vita. Il dolore è stato vissuto in modo sconsiderato, perché proveniva dagli stessi “motivi d’amore” che avevano procurato momenti di gioia immensa.
Le contrastanti emozioni della gioia e del dolore si contrappongono inseparabili e imprescindibili, una all’origine dell’altro, facendoci oscillare come bilance in un’alternanza senza sosta: “più la gioia vi invade, più sarà ampio lo spazio per essere colmato dal dolore…quanto più a fondo vi scava il dolore, tanta più gioia potrete contenere…”
Una curiosità che accresce il richiamo già intenso che ho provato per la storia raccontata: le tortore erano state regalate allo scrittore – adolescente da una signora in vacanza a La Mortola, nonna di una bambina bionda con gli occhi blu, minuta, che sedeva nel banco dietro al mio in una Scuola Media di Roma verso la fine degli anni 50, quando sapevo, a malapena, che Ventimiglia era il confine con la Francia e niente di più… Questo intreccio mi ha stupita non poco…